Posts written by principessa favilla

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    aggiunti :3
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    Ser ** io sono Frà, ti ricordi di me?
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    Anche noi, chiudo.
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    Accettiamo! avvertiteci quando avete inserito.
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    Aw *lancia biscotto* io sono Frà
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    Hhh io sono Frà uu molto piacere! Amo MISFITS alla follia giuro, e anche alibi hahha infatti kaya è mia. La Gillan è tipo stupendissima, si, comunque benvenuta! Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere uu
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    Aggiungo!
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    Sarah Aqua Nott
    studente ◊ serpeverde ◊ VII ◊ Il corvo nero
    Nero; nero e nient’altro sotto di lei ad attendere i suoi quarantacinque chili scarsi e martoriati, i suoi vestiti zuppi e il suo trucco colato. Quel manto di velluta l’attendeva, la lambiva in una maniera così dolce perché in quell’oscurità non ci sarebbe stato posto per nulla: niente penombra, niente ombre, niente incubi. Era il vuoto. Quell’abbraccio simboleggiava annullarsi. Una cosa che forse stava desiderando una volta di troppo. Per un momento ne fu davvero decisa, vide la sua vita, ogni istante, scorrerle davanti. Le si palesavano tutti i suoi fallimenti, le sue perdite, le sue colpe. Per un secondo non provò nulla. Fu un attimo che sfondò l’infinità, un attimo che aveva già vissuto più e più volte, quella sensazione di essere prossime alla pace che per una volta sembrava così reale. Era lì, con gli occhi chiusi, la mente alienata e una mano che già si allungava verso il vuoto nella speranza di afferrarlo e poi una voce la bloccò. «Ti serve una mano?» Una frase così stupida. Detta da una voce vuota e sconosciuta aveva rotto quella che reputava la perfezione del momento. L’impulso iniziale era quello di scacciarlo via e riacciuffare la magia di quell’istante che ormai era svanita, ma poi si girò. Abbandonò quel baratro in una maniera così meccanica e innaturale da riportala in sé. Guardò il ragazzo che aveva davanti, la bacchetta sguainata per fare luce, e si rese conto del punto in cui era arrivata. La disarmò. Sarah aveva provato diverse volte a porre fine a tutto, a quel carosello di eventi che pareva non avere fine. Era stata più di una volta trovata immersa i una vasca piena la cui acqua si era tramutata in colore rosso, con la testa abbandona all’indietro, i polsi massacrati lasciati andare a parere una lugubre bambola di porcellana. Aveva assaggiato il brivido di essere a un passo dal gettarsi nel vuoto, su un balcone, una terrazza, un quarto piano. La sensazione di essere completamente persa, quel delirio sordo che si avverte in prossimità di un overdose non le era nuovo. Eppure quella volta non era una di quelle, quella volta era diverso: lo avrebbe fatto davvero, e lo aveva campito solo nel momento in cui lui l’aveva strappata da quel suo strato di trance. Tutta una fortuita coincidenza. Se lui non fosse mai salito lassù? Mosso dall’insonnia, da un’assurda passione per gli astri o da una felpa abbandonata lì quella mattina? Il motivo non era importante, l’importante era che lui si era trovato lì, nel momento giusto con la persona giusta. O forse nel momento sbagliato con la persona più sbagliata di tutte. In ogni caso era lì, in quel momento.
    Avrebbe tanto voluta avere la forza di replicare in maniera aggressiva, guardarlo con la sua solita faccia scura, usare il tono duro e staccato, forse leggermente risentito per esprimere tutto il suo disprezzo e disappunto. Mandarlo via, dirgli che doveva lasciarla sola; ma soprattutto che non aveva bisogno d’aiuto. Non era così però, per quanto Sarah avrebbe voluto sostenerlo fermamente, e per quanto non facesse altro che ostentarlo in quella sua falsa sicurezza di ogni giorno, aveva decisamente bisogno di una mano. Perché era persa, persa più che mai, e non sapeva che fare perché i suoi demoni stavano più che mai prendendo il sopravvento, sempre più forti e incontrollabili. Non avrebbe lasciato però che nessuno l’avvicinasse ulteriormente: si era già fatta male fin troppa gente per causa sua. Si dava per vinta, spacciata, si crogiolava nel suo stesso delirio. Sì, aveva bisogno di essere salvata. Non voleva, non avrebbe mai voluto per questo doveva controllarsi sempre, e tenere tutto dentro fino ad implodere, mille e mille più volte. Quello che seguì fu tuttavia completamente diverso. Sarah guardò dritta negli occhi di quello sconosciuto senza vedere nient’altro di lui e pianse. Non era il suo solito pianto disperato, soffocante, fatto di singhiozzi. Era un lento scivolare di acqua salata sulle sue guance, fino alle sue labbra leggermente spalancate. Piangeva per le mille volte in cui ci aveva pensato, per le mille volte in cui era stata a un passo dal farlo, per tutte le volte in cui non c’era stato nessuno a salvarla. Piangeva per l’assurdità di quella paradossale circostanza, piangeva perché voleva avere la forza di stare da sola, e perché non voleva essere abbandonata. Piangeva e basta senza sapere che fare. Alla fine fu solo capace di abbassare lo sguardo. «Scusa..». Stava ancora piangendo, sempre così silente e incapace di dire realmente no a quella neppur concreta offerta. Provò soltanto a superarlo.
    her heart is the worst kind of weapon
    Starring → Kaya Scodellario as Sarah Aqua Nottdresssheetlisten
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    Aggunti!
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    Anche noi, chiudo <3
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    alice hicks silente
    Immortale ◊ Vicecapo Ordine ◊ Docente DCAO
    Adesso vedi.
    Alice se ne rese subito conto, non appena le nuvole liquide a lei tanto familiari presero forma, animandosi in due piccole che di ciò che sarebbero diventati possedevano solo il triste velo calato sui loro occhi; capì che ciò che stava per conoscere era qualcosa che mai nessuno avrebbe dovuto profanare: non era qualcosa di segreto, era qualcosa di privato. Quello era il più intimo risvolto della memoria di Matt, la porta della sua anima. Alice avrebbe tanto voluto ritrarsi: non era il semplice ribrezzo che provava per quel liquido suo unico nutrimento; no, non c’era nulla in quel misto di senso di colpa e vergogna che provava nel accedere a qualcosa a cui non avrebbe dovuto mai. E poi non voleva, non voleva vederlo: non voleva vedere il volto di Tom, il vero Tom, con il volto vivace di una volta, il suo Tom che non c’era più e che ormai aveva imparato, non sarebbe tornato. Perché lo sapeva, lo sentiva, che lui sarebbe presto emerso dal mare dei ricordi del fratello.

    Per un attimo credetti che quel figurino esile fosse Tom, ma poi vidi il suo volto e in quegli occhi riconobbi quella punta di debolezza che avevo sempre scorto e mai compreso in quelli di Matt, assistetti a quella scena di scherno impotente: non potevo ne credere ne capire. Poi sentì una voce, lo sguardo di tutti, compreso il mio, fu attirato dalla fonte e per un istante credetti di sentire il mio cuore, ormai fermo da troppo tempo battere all’impazza. Aaron.. allungai istintivamente la mano verso la figura di quel bambino che così tanto richiamava il mio; ma non si trattava del mio piccolo, era Tom. Parevano identici, molto più di quanto non lo fossero i due gemelli, solo in una cosa, che se avessi potuto vedere molto prima avrebbe salvato molte vite, differivano: a quel giovane Tom mancava la fragilità che non avevo mai visto e compreso in mio figlio. Desiderai ritornare alla realtà ancora una volta ma mi costrinsi a non emergere. Assistetti ad altri scherni e ciò che Tom fece e a quel punto mi chiesi se non avessi capito in principio ogni cosa solo perché non avevo la volontà di farlo perché la natura di Tom in quel momento, era così chiara ai miei occhi. Si susseguirono altre scene proibite, vidi il rapporto, il legame tra Tom e Matt per la prima volta in vita mia. Matt non aveva sempre guardato il fratello con gli occhi rassegnati e distanti della notte in cui le mi aveva imposto il sigillo; una volta quegli stessi occhi che avevano visto morire secondo il loro volere il figlio di Tom, lo guardavano con una devozione esagerata, mista a fiducia e semplice e puro affetto. Sentimenti che erano cresciuti con lui e che non l’avevano abbandonato malgrado la distanza. Cos’era cambiato allora? Bè semplicemente Tom era cambiato: Matt aveva visto suo fratello completamente cambiato, il risultato di una mutazione che si era prodigata sotto i miei occhi. Non era pronto a capirlo e perciò decide di staccarsi da lui; vidi per la prima volta le motivazioni per le quali Matt aveva interrotto la corrispondenza con il fratello, cosa che lo aveva tanto fatto soffrire e esasperato. Fui costretta a vivere nuovamente un dramma che mi aveva logorato per anni, e con il quale convivevo ogni giorno solo con gli occhi nuovi di Matt: si sentiva in colpa, per non esserci stato, per non aver salvato quell’unica volta colui che per tanto tempo si era preso cura di lui. Conoscevo bene quel sentimento, perché tra tutti gli errori e pentimenti che ci scivolavano addosso, la consapevolezza di aver commesso l’unico sbaglio che ci aveva strappato via la persona che più amavamo. Una cosa che non ti lascia, ti logora. Avevamo preso strade diverse tuttavia, io avevo scelto di errare mille e mille più volte nel tentativo di riparare al mio iniziale sbaglio, avevo scelto la neutralità, avevo quasi scelto di non scegliere e in quel momento mi chiesi se quello che chiunque vedeva come il crudele delirio di un uomo che brama potere seguendo le orme del fratello, non fosse altro che il modo più giusto per fare ammenda: agire secondo ciò che lui desiderava. Potevo comprendere tutto: gli omicidi, le scelte, l’usarmi, ma quello comunque no: potevo prenderne atto, ma non capirlo. Lui aveva comunque ucciso mio figlio, nostro figlio. Mi chiesi però cosa ne pensasse Tom, perché infondo avevo vissuto la cosa solo dal mio unico punto di vista. Non si trattava di me però. Nemmeno di Matt, per quanto ancora una volta fossi simili e accumunati in tutto. E perfino non di Aaron. Si trattava solo di Tom, si era trattato sempre e solo di Tom.
    Riemersi.


    Quando Alice si ritrovò nuovamente davanti al Matt che, malgrado sembrasse una vita fa, pochi secondi prima l’aveva invitata a guardare si sentì svuotata. Lei, che nella vita aveva avuto poche e salde certezze ora se le vedeva sgretolare tutte davanti agli occhi: sì, perché eli sbagliava sempre ma aveva sempre creduto di stare ad onorare l’amore per Tom nel modo giusto. Aaron era il suo modo di farlo, ma forse il suo amore materno e il modo in cui Tom voleva realmente essere onorato erano qualcosa di distinto. Era terribile ammettere a sé stessa che il padre di suo figlio avrebbe preferito per lui la dannazione; ma doveva andare incontro alla realtà, a quello che Tom era. Perciò non sarebbe mai riuscita a perdonare Matt, e non avrebbe desistito del tentare di salvare Celeste, ma sicuramente ora, non l’avrebbe mai più giudicato. Perché forse Matt non provava nulla, né per lei, né per Celeste, né per chiunque altro; ma per Tom sì, ed era qualcosa di davvero profondo che lei aveva a malapena sfiorato e che, malgrado ciò, l’aveva sconvolta. Aveva iniziato a capirlo, finalmente, dopo anni e anni, e una volta iniziato solo quel piccolo assaggio non le bastava più, perciò non aggiunse nulla, si limitò ad avvicinare a lui il suo viso, che non sapeva essere rigato dalle lacrime. Le loro labbra si incontrarono: ma non c’era nulla di affettivo in tutto ciò, non c’era amore ne passione, era solo qualcosa che lei aveva sentito di voler fare e che inspiegabilmente la portò nuovamente dentro di lui.

    Non ricordavo neppure come fossi arrivata lì, davanti al cuore fermo e marcio di Matt, il cuore consumato e spento dalla maledizione che condividevano. Sembrava impenetrabile, soffocato da quello strato di malvagità, forse innaturale che l’aveva reso forte e visibilmente imperturbabile. Ma io lo sapevo, lo sapevo in quel momento, e forse non l’avrei saputo mai più, che tutta quella era solo apparenza, era un’armatura, come la più vile delle mie maschere che non solo lo proteggeva; ma lo imprigionava. Mi feci largo, dilaniando le fibre già morte che avvolgevano il vero cuore di Matt ed entrai. Nel profondo, nel suo cuore. Avevo lì, tutto ciò che lui provava, aveva provato, ma non lo violai, non mi permisi di avere accesso ai suoi sentimenti in quel modo, io mi limitai a giungere sul fondo freddo della gabbia. Chiusi semplicemente gli occhi e quando li riaprì ero lì: intorno il buio, vere sbarre di duro acciaio, e in fondo ad essa una palla di carne arrotolata su sé stessa. Era lì: indifeso, martoriato, ferito quel bambino dall’immane bellezza che aveva conosciuto nei ricordi di Matt. Era il piccolo Matt, incatenato al fondo della gabbia, che piangeva e tremava solo. –Chi sei..?- Mi chiese una voce debole. –Mi chiamo Alice, tu chi sei?- Glielo chiesi comunque, volevo sentirglielo dire. –Io sono Lui, avvicinati..- Mi pareva così debole e ad ogni passo che muovevo verso di lui mi appariva più malconcio e penoso. Mi accucciai al suo fianco e lui mi rivolse i suoi occhi tristi ancora una volta tanto famigliari. –Mi tiene prigioniero qui, Lui, da tanto tempo.. Non ce la faccio qui, ho sempre più freddo e non riesco più a lottare, è troppo forte.. mi sto spegnendo- Afferrai quel corpicino malconcio che tanto mi ricordava quello di mio figlio e mentre soffocavo i singhiozzi lo strinsi a me. Cercai di infondergli più calore e amore possibile. Non volevo che scomparisse.. –Non ti spegnerai shh, ci sono qui io, non ti lascerò, non vi lascerò- Lo rassicurai senza staccarmi da lui, e promisi quelle cose davvero decisa ad adempiere ad esse. Volevo salvare, non era giusto che quel bambino così piccolo ed indifeso soffrisse così. Sembrava così puro.. –Tu sei così gentile Alice, devi salvarmi, devi proteggerci, salvalo ti prego, salvami- Restammo così, a scambiarci preghiere e promesse, abbracci e calore, lacrime e sussurri per quella che poteva essere la durate di una vita. Poi lo sentì, sentì il cuore di Matt, la parte marcia di lui, strapparmi dalle braccia scarne del ragazzino, provai ad aggrapparmi ma fu come se la mia anima venisse scaraventata fuori dal cuori di Matt. –Tornerò, te lo prometto- Urlai mentre ritornavo alla realtà, mentre ritornavo da Matt.
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    inserite e noi faremo lo stesso!
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    Aggiunti anche noi, chiudo!
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    Sarah Aqua Nott
    studente ◊ serpeverde ◊ VII ◊ Il corvo nero
    «Erbologia: ormai io e la Robbins siamo una cosa sola.» Sarah sorrise amara fra sé, dentro di lei una squallida adolescente fuori controllo urlava al resto di lei di chiedergli, di indagare. Voleva sapere, se quella fosse una semplice illusione, il frutto di una mente ossessionata e facilmente influenzabile quale era la sua; oppure un allusione mal celata alla notte di fuoco trascorsa tra le cosce della Robbins. Era Markus, perciò entrambe le cose erano altrettanto possibili: era tipico suo scherzare su tutto e fare sempre vaghe illusioni tanto quanto conquistare qualsiasi homo sapiens sapiens portatore di vaginus. Del resto agli occhi di Sarah Lui poteva lambire e ottenere qualsiasi cosa desiderasse da una qualsiasi delle ragazze di Hogwarts. Probabilmente per molti di essere era anche vero, ma di certo il suo giudizio non poteva essere il più imparziale fra tutti. Ai suoi occhi si era convinta, non c’era nessuno migliore di Markus e si riteneva fin troppo fortunata che lui le regalasse determinate attenzioni, senza rendersi conto di quanto non fosse stupida. Nessuno tuttavia avrebbe potuto fermarla e strapparla via da quella follia. Non si poteva dire che quel rapporto malato fosse la fonte di tutti i suoi problemi, la reale ragione stava a monte, nel profondo; tuttavia lei sembrava mettercela tutta per far si che tutto, almeno apparentemente, ruotasse attorno a Markus. Forse ne aveva bisogno: aveva bisogno di torturarsi con quello che lei definiva amore non ricambiato, di giustificarsi parlando di veri sentimenti nella sua lotta contro Mia, aveva bisogno di trascurare chiunque altro di distruggere tutto per lui. Forse perché dire che il suo amore per lui la stava distruggendo sarebbe stato molto meglio che ammettere che lei era già distrutta: e si era distrutta da sola, e lo aveva fatto il Pozze, e la morte di tutti coloro che amava, e la perdita di Kat e quei suoi fottuti demoni. Markus era l’unica persona che anche standole attorno non era finito per ferirsi. Lui era sicuro. Faceva meno male essere ferita che distruggere qualcun altro. Era la sua classica tendenza, mania, forse dettata dal protagonismo, che le suggeriva di essere una sorta di portatrice di sventure, una mela marcia. Lei trasformava in merda tutto ciò che toccava. Ma Markus no, lui non poteva essere scalfito nemmeno da lei e forse, anche se continuava a ripetersi che soffriva per lui, gli stava accanto così, appresso, a rincorrerlo perché lui la faceva stare bene. Era la sua isola felice per un po’, sulla quale non si preoccupava; o meglio, fingeva di preoccuparsi per cose di cui non le importava affatto. Solo che non lo sapeva, non ancora. Per il momento doveva solo godersi quelle emozioni da ragazza normale: i batticuori, il rossore sulle guance, la pungente gelosia; la gioia nel sentirgli pronunciare quelle parole.
    «Cosa fai sta sera?» Non ne rimase colpita, non sarebbe stata la prima notte passata tra le lenzuola di Markus, tuttavia per un secondo un brivido attraversò il suo corpo: felicità, paura, imbarazzo, impazienza. Non si aspettava altro, perché quelle parole non venivano da qualcun altro. A lei andava bene così; tuttavia c’erano delle formule che andavano rispettate e in ogni caso la speranza, è sempre l’ultima a darsi al suicidio perfino per lei. «Per il momento non ho programmi, probabilmente io e la mia migliore amica vodka ce ne staremo in camera a fare un pigiamo party.» Si rese conto solo dopo averle pronunciate di quanto suonassero patetiche quelle parole; del resto erano anche false. Solitamente era il giorno che passava così: la notte era per la gente, la folla, che solitamente mal sopportava ma che le tornava sempre così utile quando si trovava a fuggire dagli incubi. Questo Markus non lo sapeva, nessuno lo sapeva. Perché Sarah non si era mai aperta con nessuno. Chiudeva tutto dentro e andava avanti, implodeva ogni giorno e si caricava sempre più; ma ormai, quella bomba ad pressione che era diventata stava per esplodere irrimediabilmente. Tuttavia rise, per alleggerire la pateticità di quella frase e prese a mordicchiarsi il labbro incontrando i suoi occhi.
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    Sarah Aqua Nott
    studente ◊ serpeverde ◊ VII ◊ Il corvo nero
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    Si dice che la notte porti consiglio. Bè anche se questo vecchio detto ha trovato verità nella maggior parte della persone per Sarah non è così, la notte per lei, è l’oblio. Chiunque la veda direbbe che lei è un animale notturno, fatta per muoversi nel buio, che le tenebre le donano e la rivendicano. Forse è vero. Lei veniva dalla notte, era stata plasmata dalle tenebre e la sua essenza era tale, eppure per lei la notte era l’inferno. Feste, alcool, sesso, droga: questo era ciò che apparentemente riempiva le notte insonni di Sarah. Lamette, bulimia e incubi erano ciò che realmente riempivano le dodici ore di buio che lei era costretta ad affrontare quotidianamente. Temeva la notte, perché con la sua venuta i suoi incubi si facevano più forti, reali, coloriti. Se di giorno erano sprazzi di illusioni che le facevano perdere il controllo per un paio di minuti al massimo, senza la protezione della luce del sole si facevano più forti e temibili: divenivano chiari e sembravano perforarle la mente, potevano scuotere il suo corpo, farlo tremare e sudare per ore intere mentre la sua mente veniva lentamente consumata dai suoi demoni. Per questo, per stare lontana da tutto questo doveva restare sveglia, sveglia e impegnata perché la solitudine e la lucidità mentale facevano galoppare il suo inconscio verso il baratro delle visioni. Era paradossale, ma altrettanto vero: più Sarah era ubriaca, sballata e confusa dalla folla e dalla musica più i suoi incubi non riuscivano a penetrare la sua barriera mentale. Per questo ricordava a stento l’ultima volta in cui aveva dormito per più di tre ore di fila, forse aveva sette anni, forse anche qualcosa di meno, perché parlare di nottate intere era inconcepibile. Pensare a dieci ore di sonno tranquillo e interrotto faceva anche pensare alla sua vita prima della scomparsa dei suoi, prima del pozzo, prima di Garrett; faceva pensare ad un’altra vita, ad un’altra Sarah. Una Sarah che si era persa, dentro quel fragile corpo con i suoi 47 chili scarsi e migliaia di problemi. L’altra Sarah, quella persa, tormentata, sbagliata, era quella che aveva preso il sopravvento con tutte le sue insicurezze a seguito ed era cresciuta alimentata da tutte le tragedie che la colpivano fino a schiacciare la piccola ed innocente parte di lei che una volta era stata felice, la parte che sapeva chi davvero fosse Sarah Aqua Nott. Capitava a volte, però, che quella piccola parte indifesa prendesse il sopravvento su tutto il resto e trascinava via il resto del suo corpo dalla folla, dalle feste, da tutto ciò che faceva estraniare l’Altra Sarah dal suo stesso corpo. A quel punto si doveva scappare, scappare nella penombra, nel silenzio, nella solitudine. A quel punto Sarah era ogni volta a un passo da ricordare chi fosse sé stessa, dal trovarsi, dal riscoprirsi, ma a quel punto, immancabilmente i suoi incubi rompevano l’argine e tornavano a farle visita più incasinati e terribili che mai. Come se temessero quel traguardo le sfinivano la mente e la lasciavano tremante in un angolo della stanza a piangere, era a quel punto che l’Altra Sarah ritornava, insicura e fragile come sempre. Allora si vedeva una ragazza piegata in due sulla tazza del cesso a vomitare ogni singolo grammo ingerito, nella speranza che svuotandosi di sostanza si sarebbe anche svuotata di problemi. Questa non era la soluzione, finiva solo con l’essere più piena e stordita e le strade potevano essere solo due: ricorrere a lamette da barba, forbici, cocci di vetro o qualsiasi altra cosa dotata di lama a portata di mano, o sprofondare in uno stato di incoscienza tanto più simile al come che allo svenimento che la trascinava in un limbo bianco per poche ore.
    Quella era una di quelle sere, sempre se le quattro del mattino si possono definire sera, in cui l’istinto chiamava, la chiamava a non sottrarsi alle tenebre e ad immergersi in esse completamente sola. Sarah avrebbe tanto voluto essere abbastanza forte e coraggiosa da impedire a sé stessa di attirarla in quella notte. Non temeva l’altra parte di sé, non temeva quella strana sensazione di essere un passo dal sentirsi nuovamente sé stessa, no, temeva loro però. I suoi immancabili compagni, alleati, nemici, sarebbero venuti a farle visita inesorabili anche quella notte. Ogni volta era sempre peggio, anche se Sarah ogni volta era convinta che peggio non potesse esserci. Eppure a volte è così difficile resistere a sé stessi. Aveva passato la nottata in camera sua. La sua stanza vuota, da quando Coraline se n’era andata, nel dormitorio dei Serpeverde nei sotterranei. Sarebbe dovuta apparire come una stanza lussuosa, come ogni altra nella scuola, confortevole e accogliente. Invece era tanto più simile a una prigione quanto a un nascondiglio di un folle. Immersa nel suo marasma di oggetti, fogli, ricordi. In tutta quella confusione aveva resistito, fino a quel momento, ai suoi demoni che l’attiravano fra la loro spire. Ora però lo sentiva, stava per cedere, al sonno, all’incoscienza, a loro. Perché davvero non ne poteva più, era al limite. A volte però la paura ti rende più forte di quanto non riesca la speranza. Con gli ultimi brandelli di autoconsapevolezza aveva avuto il coraggio di lasciare quel sudicio buco in cui viveva per caracollarsi nei corridoi bui della scuola senza meta. Le mancava l’aria. Si mise a correre, una corsa inutile e senza significato: non si può scappare da ciò che si ha già dentro, è come scappare da sé stessi, e scappare da sé stessi comporta la pazzia. Non seppe neppure come ci arrivò, ma si trovò arrampicata sul limite della torre di astronomia. Sotto il cielo stellato, lì in piedi, sul quella specie di effimero muretto rialzato a guardare di sotto. Riprese a respirare, lentamente il battito del suo cuore si fece più regolare e gli spasmi affannosi cessarono. Era quasi in pace. Ce l’aveva fatta, quella volta, li aveva scacciati. Ma sarebbero tornati, sì presto avrebbero bussato, o meglio, sfondato la porta della sua mente e l’avrebbero fatta contorcere con le loro immagini, le loro parole. Non aveva scampo alcuno: quella che le si prospettava davanti era una vita fatta di incubi che ogni giorno si sarebbero fatti più forti fino a prenderla completamente. Era certa, che prima o poi, non sarebbe più riuscita a riemergere. Fissò lo sguardo sul terreno scuro che l’aspettava di sotto. Quasi non distingueva il suolo ma sapeva che era lì, ad aspettarla ad accoglierla nel suo abbraccio. Poteva buttarsi, o stare lì seduta ad aspettare che il giorno si fosse alzato di fronte a lei. Se avesse scelto la seconda via si sarebbe rifugiata nella luce della sua vita sbagliata e avrebbe acquisito una flebile speranza fino alla sera successiva, poi tutto sarebbe ripreso, com’era destino che fosse e così sarebbe stato anche il giorno seguente, e quello dopo, e quello dopo ancora finché non avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Farla finita sembrava la proposta più allettante: non avrebbe più provato nulla, niente più dolore, niente di niente; non temeva la morte perché con la morta avrebbe raggiunto nuovamente la sua famiglia, mamma, papà e Oliver. Ci aveva provato altre volte, era giunta al limite spesso in realtà, ma si era sempre fermata, ancorata alla vita da un unico pensiero: Garrett. Ora però una nuova idea le si era insinuata dentro: forse l’unico modo che aveva per proteggerlo era proprio quello di farla finita e di proteggerlo dal cielo o da qualsiasi altro posto in cui sarebbe andata, dove non sarebbe più stata la fragile Sarah preda delle tenebre perché i suoi demoni non sarebbero mai potuti venire con lei. Chiuse gli occhi e respirò lentamente e fece un passo verso la pace. Sopra di lei, il cielo, aveva iniziato a piovere.
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59 replies since 2/11/2010
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